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RODGERS, OVVERO L'EVOLUZIONE DELLA MARATONA
di Gabriele Gentili
Molti considerano Bill Rodgers una sorta di corrispettivo d’oltreatlantico, per la sua carriera di maratoneta e post-maratoneta, del nostro Orlando Pizzolato. Il bello è che ognuno dei due si sente lusingato del parallelismo. Difficile fare confronti, certo è che il campione statunitense, pur non potendo vantare nel suo palmarès alcun titolo importante, è stato una pietra miliare dello sviluppo della maratona. Può anzi essere definito come il simbolo del passaggio della gara sui 42,195 km da semplice prova podistica a fenomeno di costume. Rodgers gareggia infatti negli anni Settanta, quelli nei quali le maratone divengono autentiche prove di massa: il running è una moda che invade gli Usa e poi tutto il mondo, si moltiplicano le pubblicazioni al riguardo, l’indotto economico moltiplica i suoi numeri e Rodgers, con le sue vittorie, costituisce l’immagine migliore che ogni azienda possa sperare. Paradossalmente anche chi non lo sponsorizza se ne giova, perché in quegli anni parlare di Bill Rodgers significa occuparsi di corsa e l’espansione del mercato è così repentina che lascia spazio a tutti.
 
Rodgers, in quegli anni, pensa a correre ma tiene d’occhio tutto quel che succede attorno a lui. Tra una gara e l’altra completa i suoi studi in sociologia alla Wesleyan University e si dedica a costruire qualcosa che possa durare nel tempo. Nel 1977 fonda insieme a suo fratello Charlie il Bill Rodgers Running Center, a Boston, la sua città, pur essendo lui nato ad Hartford nel Connecticut. Da allora il suo centro diventa un riferimento fondamentale per tutto il movimento americano. Chiariamoci: non è che da lì escano i campioni, Rodgers cavalca il movimento amatoriale, fornisce indicazioni di allenamento, organizza stage, prepara tabelle e trasferte. Un po’ quello che poi faranno tanti altri maratoneti e allenatori, ma Rodgers mette a disposizione una struttura di grandissima attrattiva.
 
Per molti versi Rodgers incarna anzitempo il maratoneta professionista dei nostri giorni. Innanzitutto individua nelle classiche internazionali il suo obiettivo privilegiato, senza disperdere le sue energie nella caccia a titoli vari. Le Olimpiadi, questo è vero, costituiscono anche per lui l’unico autentico richiamo: la sua grande occasione è a Montreal 1976, dove si presenta nel ristretto mazzo dei favoriti in virtù del record continentale stabilito l’anno precedente a Boston, 2h09’55” ritenuto tempo di grande caratura considerando la difficoltà del percorso. Rodgers si presenta però in condizioni fisiche non ideali, anche a causa di un periodo di gara, l’estate inoltrata, che poco si attaglia alle sue caratteristiche: durante i mesi caldi lo statunitense infatti è abituato a dedicarsi alle prove più brevi del circuito statunitense e i 42,195 km gli presentano ben presto il conto. Rodgers corre nel gruppo dei più forti fino al 25° km, poi un crampo al piede destro lo costringe a rallentare: finirà 40° in 2h25’14” tornando a casa con dentro di sé una grande delusione e la voglia di rifarsi appena possibile. L’occasione gliela fornisce la Maratona di New York a inizio novembre, dove Rodgers coglie la prima delle sue affermazioni nella Grande Mela in 2h10’10”. La carriera di Bill Rodgers è legata a doppio filo alle maratone di Boston e New York, le grandi classiche del calendario americano: in entrambe tra il 1975 e il 1980 ottiene uno straordinario poker di successi, ma questo non è l’unico dei suoi record. Nel 1977, appena un mese dopo aver vinto a New York, lo statunitense sbanca anche la Maratona di Fukuoka in Giappone, e con il successivo successo in primavera a Boston diviene l’unico atleta capace di una simile tripletta, una sorta di Grande Slam della maratona.
 
Un’altra caratteristica che fa di Rodgers un precursore dei tempi è il fatto che, pur amando correre nel suo Paese e venendo attratto dai dollari di casa, è attento a quel che succede nel mondo e va continuamente a caccia di nuove esperienze. Al di là delle vittorie americane, Rodgers colleziona successi in altre classiche come Amsterdam nel 1977, Stoccolma nel 1981, Melbourne l’anno successivo. Proprio questa caccia alle vittorie in giro per il mondo apre una strada che verrà percorsa soprattutto dai corridori africani: al tempo di Rodgers la concorrenza del Continente Nero è piuttosto scarsa anche perché sono pochi i corridori che si spingono oltreatlantico, ma la sua esperienza si rivelerà molto utile nella costruzione di nuove carriere.
 
Per quanto riguarda quella del campione statunitense, passa attraverso due canali. Uno è quello della maratona, l’altro riguarda le prove su strada. Anche in questo Rodgers precorre i tempi perché fra una maratona e l’altra (neanche poche in quanto arriva a disputarne 5 nel 1977, 1978 e 1981) infittisce il suo programma con una serie quasi interminabile di gare su distanze più brevi, che gli consentono sia di affinare la condizione in vista degli appuntamenti sui 42,195 km, sia soprattutto di monetizzare quanto più possibile la sua passione per la corsa. Straordinario in tal senso è il 1978, quando il corridore di Hartford vince ben 27 delle 30 corse disputate, siglando nella Pepsi 10.000 Meter il record mondiale sulla distanza su strada con 28’36”3. L’anno successivo strappa al finlandese Pekka Paivarinta il primato mondiale sui 25 km con 1h14’11”8 correndo su pista a Saratoga. La sua carriera ad alto livello finisce nel 1984 quando manca la qualificazione per i Giochi Olimpici di Los Angeles finendo ottavo nei Trials, ma la sua passione per la corsa gli impedisce di chiudere con la maratona. Continua a correrne fra i Master, tanto che nel 1988 è secondo di categoria sia a Los Angeles che a Boston, poi le sue apparizioni sui 42,195 km divengono più sporadiche ma non quelle nelle prove su strada. Rodgers inoltre comincia ad apprezzare il piacere della corsa fine a se stessa e dell’aiuto verso gli altri, l’impegno verso il suo centro di preparazione raccoglie gran parte del suo tempo, ma quando si corre a Boston o New York state pur certi che la sua figura compare, viene richiamata come una sorta di nume tutelare. Il suo elenco di premi è infinito, dal 2000 fa parte della Usa Track & Field Hall of Fame. L’unico suo rammarico ancora oggi è indirizzato verso quel sogno olimpico infranto a Montreal e non vissuto a Mosca a causa del boicottaggio: magari senza la politica la sua carriera avrebbe avuto un altro indirizzo ancora più eclatante.

Credito foto: foto vittoria alla Boston Marathon 1979 (foto archivio Worldathletics)

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